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IL TEMPO DI TEREZÍN

L’arte, strumento della memoria.

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Fino al 1965 dipingevo nature morte, animali, interni, esterni, in un modo più o meno astratto, confessa l’artista Giorgio Celiberti, poi la visita a Terezín e lo scontro con una realtà drammatica che cambierà la sua anima e la sua arte!

La visita a Terezín fu il momento più drammatico della mia storia di pittore. Mi sono imbattuto in quei segni dei bambini, sui muri, in quelle tragiche finestre, in quei cuori rossi e bianchi, in quelle cancellature, elenchi, farfalle, piccole foto, colonne di numeri.

Dalla scoperta di quei segni indelebili Celiberti  non riesce a staccarsi e decide di ricordare la sofferenza della storia tramite la sua arte, con una collezione che chiamerà Lager.
Inciderà la materia di graffi e segni a volte appena abbozzati; utilizzando le X con le quali le vittime conteggiavano i giorni di prigionia, le lettere T, Z, N, riferite al luogo e segni elementari che parlano di un’umanità sofferente, ci trasmetterà tutta l’angoscia emersa dalla visione di quei simboli sul cemento.

Le opere di Celiberti divengono testimonianza di uno spirito di speranza e, nello stesso tempo, degli orrori perpetrati contro i più deboli, ci obbligano a riflettere sulle violenze di quello che è accaduto e che mai più deve ripetersi.

Per maggiori informazioni sull’opera di Giorgio Celiberti invitiamo a visitare il sito ufficiale dell’artista all’indirizzo: www.giorgioceliberti.it

Elisa P.

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LA SATIRA DI HITLER: DER KAISER VON ATLANTIS

La favola dell’opera di Viktor Ullmann e Peter Kein

Locandina Der Kaiser Von Atlantis

Mi chiamo Der Kaiser Von Atlantis, sono un’opera lirica e sono nata a Terezìn nel 1943. I miei genitori erano il musicista Viktor Ullmann e il librettista Peter Kien. La mia storia è triste ma è anche una storia di resistenza artistica.

Purtroppo non sono mai stata rappresentata all’interno del ghetto. Volete sapere perché? Censura! Le SS avevano capito che il mio personaggio principale era la satira di un sovrano totalitarista, mentre tutti gli altri lo negavano per non rischiare la vita. Era la pura verità: io rappresentavo l’arma contro la privazione della libertà, contro la violazione di tutti i diritti umani.

Io ero il grido di rabbia e di gioia. Sono sopravvissuta per ricordare gli artisti di Terezin e per dimostrare che l’arte può andare oltre la morte e far rivivere i suoi autori per sempre.

Prima del trasferimento ad Auschwitz, fui affidata da Ullmann al suo amico e compagno di cella Emil Utitz che, scampato alla prigionia, mi consegnò, a sua volta, ad un altro sopravvissuto, Hans Günther Adler. Per decenni mi diedero per dispersa, ma fui ritrovata nel 1972 dal direttore d’orchestra Kerry Woodward. Il 16 dicembre 1975, il Bellevue Centre di Amsterdam mi presentò in anteprima mondiale: Der Kaiser von Atlantis, con Woodward alla direzione.

Da quel momento in poi, fu rappresentata in tutto il mondo come, in Italia, nell’opera La memoria dell’offesa di Roberto Andò.

Giuliano C.

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TEREZÍN, “IL GHETTO DEGLI INNOCENTI”

  Poesie e Preghiere

immagine poesia e preghiere

Sono passati a Terezín in 15.000. Alla fine della guerra erano vivi meno di cento bambini. Meno di 100!

Quando tutto viene negato, quando perdi la libertà improvvisamente, quando ti sradicano dagli affetti con violenza, quando devi crescere troppo in fretta, quando non vedi più i colori, quando vivi la tragedia senza poterne scappare rimane solo la parola, silenziosa e struggente.
E migliaia sono state le parole, sussurrate in preghiera, bisbigliate sotto voce, ammassate tra le baracche o confluite nelle numerose poesie dei giovani convogliati a Terezín tra il ’41 e il ’44 in quello che la storia avrebbe poi definito “il ghetto degli innocenti”, per l’elevatissimo numero di fanciulli che sono passati nel campo.

Le preghiere dei bambini erano rivolte a un Dio che sembrava averli dimenticati, ma a cui non riuscivano a rinunciare.

Con te Signore, riusciamo ancora a parlare, anche al futuro. Con te siamo ancora ragazzi liberi, ragazzi ebrei, ragazzi e basta.

Signore, solo tu puoi fare regali. Noi abbiamo ricevuto solo violenza. Gli scorpioni li abbiamo visti da vicino.

Oltre le preghiere, le innumerevoli poesie scritte in quegli anni di terrore, e poi ritrovate, appaiono come la testimonianza di fragili richiami alla vita, la cui leggerezza assume oggi il peso di un macigno.

Nostalgia della casa

È più di un anno che vivo al ghetto,
nella nera città di Terezín,
e quando penso alla mia casa
so bene di che si tratta.
O mia piccola casa, mia casetta,
perché m’hanno strappato da te,
perché m’hanno portato nella desolazione,
nell’abisso di un nulla senza ritorno?
Oh, come vorrei tornare
a casa mia, fiore di primavera!
Quando vivevo tra le sue mura
io non sapevo quanto l’amavo!
Ora ricordo quei tempi d’oro:
presto ritornerò, ecco, già corro.
Per le strade girano i reclusi
e in ogni volto che incontri
tu vedi che cos’è questo ghetto,
la paura e la miseria.
Squallore e fame, queste è la vita
che noi viviamo quaggiù,
ma nessuno si deve avvedere:
la terra gira e i tempi cambieranno.
Che arrivi dunque quel giorno
in cui ci rivedremo, mia piccola casa!
Ma intanto prezioso mi sei
perché mi posso sognare di te.

(1943, Anonimo)

La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,
Così ricca, smagliante, splendidamente gialla.
Se le lacrime del sole potessero cantare contro una pietra bianca…
Quella, quella gialla. E’ portata lievemente in alto.
Se ne è andata, ne sono certo, perché voleva dare un bacio d’addio al mondo.
Per sette settimane ho vissuto qui,
Rinchiuso dentro questo ghetto
Ma qui ho trovato la mia gente.
Mi chiamano le margherite
E le candele che splendono sull’abete bianco nel cortile.
Solo che io non ho visto mai un’altra farfalla.
Quella farfalla era l’ultima.
Le farfalle non vivono qui, nel ghetto.
(Pavel Friedmann, da Vedem, 4.6.1942)

Elisa P.

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DER KAISER VON ATLANTIS

“[…] Ed io sono convinto che tutti coloro,

nella vita come nell’arte,

che lottano per imporre un ordine al Caos,

saranno d’accordo con me”

V. Ullman


Un’opera nata prigioniera 

La vita culturale a Terezín fu sempre oggetto di vivo dibattito tra gli artisti: a partire dal 1942 alcuni invitarono i loro colleghi a produrre opere i cui contenuti lasciassero intendere le reali condizioni di vita dei prigionieri e incarnassero i loro sentimenti di ribellione e protesta.

Il compositore Viktor Ullman, infatti, non si accontentò di scrivere un’opera ad uso e consumo dei prigionieri e delle SS. Der Kaiser von Atlantis oder Die Tod-Verweigerung (L’imperatore di Atlantide ovvero Il rifiuto della morte) è un’opera lirica, composta nel 1943 su libretto di Peter Kien. La trama ha un forte richiamo allegorico. L’Imperatore Overall governa l’Impero corrotto di Atlantide. Ordina alla Morte di guidare l’esercito in una guerra per la propria glorificazione. La Morte si rifiuta, entra in sciopero ed evita la morte dei soldati: ne deriva il caos. L’imperatore capisce di aver commesso un errore e per far tornare la Morte a fare il suo compito ne diventa lui stesso la prima vittima. La connotazione politica dell’opera è evidente e i riferimenti allegorici, anche musicali, non mancano: il più eclatante è una versione dell’inno nazista Deutchland, Deutchland uber alles riproposto in forma di variazione in tonalità minore.

La partitura manoscritta del Kaiser von Atlantis

La partitura manoscritta del Kaiser von Atlantis

Uno spartito che viaggia

Prima della partenza per Auschwitz, Ullman affidò i suoi manoscritti all’amico e compagno di cella Dott. Emil Utitz, bibliotecario presso il campo che, scampato alla prigionia, consegnò lo spartito al Dott. H. G. Adler. La partitura, ritenuta perduta per decenni, venne ritrovata nel 1971 dal direttore d’orchestra Kerry Woodward a Londra. Si trattava di una copia con modifiche e cancellazioni apportate nel corso delle prove del 1944. In vista della prima rappresentazione mondiale del Kaiser (1975), Woorward introdusse numerosi cambiamenti e soltanto nel 1981 andò in scena una versione più fedele al manoscritto, nel quale compariva un ensemble da camera formato dagli unici strumenti disponibili a Terezín (tra cui banjo, harmonium, sassofono contralto e clavicembalo). Negli anni Novanta venne fatta un’ulteriore ricostruzione filologica della partitura grazie alla collaborazione di alcuni dei musicisti sopravvissuti: il basso Karel Berman, il violinista Herbert Thomas Mandl e Paul Kling, primo violino alle prove di Terezín.

Francesca C.

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UN REQUIEM A TEREZĺN

“Lacrimosa dies illa,
qua resurget ex favilla
judicandus homo reus.
Huic ergo parce, Deus.
Pie Jesu Domine, 
dona eis requiem!

Amen!”

L’urlo dei condannati

Il periodo compreso tra il 1943 e il 1944 è cruciale per la produzione artistica nel ghetto di Terezin: parallelamente alla composizione dell’opera Der Kaiser von Atlantis, infatti, il direttore d’orchestra Rafael Schächter (detto Rafik) intraprende lo studio della Messa di Requiem di Giuseppe Verdi. La scelta, contestata e criticata da molti all’interno del campo, appare senza dubbio insolita poiché il Requiem costituisce, di fatto, una preghiera per onorare i defunti appartenente, però, al rito cattolico.

Schächter, che fino a quel momento aveva curato a Terezin solo l’esecuzione di concerti, coglie tra le pagine verdiane la possibilità di mettere in scena un oratorio monumentale dalla fortissima potenza evocativa. Riunisce dunque quattro solisti e centocinquanta coristi, accompagnati al pianoforte da Gideon Klein in mancanza dell’orchestra. La diffidenza da parte dei suoi collaboratori è evidente ma le motivazioni che spingono Schächter ad andare avanti sono altrettanto forti. Nella sua interpretazione, infatti, il significato dell’opera verdiana viene capovolto e gli ebrei, attraverso le note violente del Dies Irae, non intonano un’autocelebrazione del loro crudele destino (come credevano i tedeschi) ma un urlo di vendetta contro i loro carnefici che, per ben due volte, avevano decimato il coro portandolo alla morte, ad Auschwitz.

Impossibile lavorare in tali condizioni, obbligati a respirare quest’aria impregnata di morte e di silenzi ingombranti lasciati dai coristi che non ci sono più. Neanche la Croce Rossa, testimone di una delle quindici esibizioni del 1944, riesce a cogliere il messaggio di resistenza degli artisti di Terezin: “Canteremo ai Nazisti ciò che non possiamo dirgli”.

Locandina del Requiem eseguito nel 1944

Locandina del Requiem eseguito nel 1944

Francesca C.

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IL BRUNDIBÁR

La storia di una storia

Locandina dell’opera “Brundibár”

C’era una volta Brundibár, un’opera musicale che nacque nel 1938 a Praga. I suoi genitori, il compositore Hans Kráša e il librettista Adolf Hoffmeister, decisero di darle vita per raccontare una storia interpretata dai bambini per i bambini.

Nel 1942, Brundibár e solo uno dei suoi genitori, Hans Kráša, furono però rinchiusi a Terezìn.

In questa terribile condizione, Brundibár riuscì comunque a mantenere il proprio entusiasmo, supportata soprattutto dalla forza del padre Kráša. Dopo tante prove e dopo essere stata riadattata testualmente come protesta celata contro i nazisti, fu rappresentata per la prima volta all’interno del campo, il 23 Settembre 1943. Nonostante la stanchezza e le tante difficoltà, fu poi replicata altre 55 volte l’anno successivo, fino a che, in un triste giorno, Kráša fu deportato ad Auschwitz e il 17 Ottobre 1944 vi morì.

Brundibár crollò, ma subito dopo capì che doveva farsi coraggio e che doveva sopravvivere a Terezin per raccontarsi e per ricordare per sempre l’arte di suo padre e le terribili oscenità compiute dai nazisti.

Oggi Brundibár ha 76 anni ed è riuscita a farsi rappresentare in tutto il mondo e, in Italia, in alcuni spettacoli tra cui Le bambine di Terezin e Brundibár. Un’opera per non dimenticare.

Giuliano C.

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BRUNDIBÁR

La favola che ha sconfitto il male

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La favola musicale Brundibár, opera scritta nel 1938 da Hans Kráša su libretto del tedesco Hoffmeister, potrebbe apparire a prima vista come una delle tante storie che i nonni raccontano ai lori nipotini prima di andare a dormire, ma così non è!

La trama, molto elementare nello svolgimento, narra la storia di due bambini orfani di padre che, pur di aiutare la loro mamma, combattono grazie alla loro musica contro Brundibár, il malvagio suonatore di organetto.
Narrativamente ricca di metafore positive e leggere, abitata da simpatici animali colorati, la vicenda della storia si tinge però di caratteri tragici e cupi.

Nata a Praga, la storiella non riesce a trovare il suo posto in un mondo libero e viene subito rinchiusa insieme al suo autore a TerezínI personaggi della storia assumono da quel momento un ruolo preciso: Brundibár non può che essere identificato con Hitler e la musica come l’unico strumento invisibile ma potente per vincere il male.

Nella fiaba tutto assume toni allegorici; queste radici sono rintracciabili nel profondo e vero male vissuto dai bambini dentro il ghetto, il cui unico spazio libero diventa il palco del teatro. Il male dentro Terezín era evidente e esplicito così come era irrinunciabile combatterlo e sfuggirlo. L’unica possibilità rimaneva sublimarlo nell’arte.

La musica e il teatro diventano lo strumento dei più deboli per sfuggire all’orrore della realtà, un luogo magico in cui almeno 55 volte il bene riesce a sconfiggere il male più estremo. La fiaba è finzione in cui rifugiarsi, uno spazietto in cui nascondersi, microcosmo in cui sperare, mondo fantastico abitato da desideri reali di libertà e giustizia.

Elisa P.

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HITLER DONA UNA CITTÀ AGLI EBREI

Il film nazista diretto da un ebreo

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Scena tratta dal film “Hitler dona una città agli ebrei”

 

“Le riprese erano un grosso assurdo teatro, in cui ognuno era guidato da un unico sentimento: la paura. Non c’era altro linguaggio a Terezín se non la paura. E questa paura dominava anche Gerron”. (Cit. Ivan Fric, cameraman del film)

 

La domanda nasce spontanea: perché mai un famoso regista ebreo avrebbe dovuto dirigere un film di propaganda nazista? Per non finire su un convoglio diretto ad Auschwitz.

Questo è il ricatto che convince Kurt Gerron a piegarsi ai desideri dei suoi carcerieri e ad accettare l’incarico di regista della pellicola Der Führer schenkt den Juden eine Stadt, meglio conosciuta come Hitler dona una città agli ebrei (qui un estratto del film). In cambio dell’implicita promessa di aver salva la vita, assieme a quella di tutti gli attori, nell’agosto del 1944 Gerron inizia le riprese di un film che altro non è che un’opera di contraffazione della realtà. Si tratta di una pellicola che vuole riproporre, attraverso la macchina da presa, la pantomima messa in scena, due mesi prima, davanti all’ispettore della Croce Rossa Maurice Rossel. Mentendo a se stesso e a tutti gli ebrei, infatti, Gerron accetta il compito di ripresentare Terezín come una sorta di mondo ideale: un ghetto modello in cui vige un’atmosfera ludica e allegra, in cui le attività culturali sono sostenute e in cui ogni recluso diventa attore. Per l’occasione tutto il ghetto viene trasformato in un gigantesco set cinematografico, dove gli artisti e i tecnici vivono in un clima quotidiano di terrore, schiacciati dal perfezionismo quasi maniacale del regista e dal controllo incessante e pervasivo dei nazisti.

Il film viene concluso nel dicembre 1944 e montato a Praga all’inizio del 1945. Tuttavia, la sua funzione propagandistica viene resa vana dall’evolversi degli eventi di guerra: l’Armata Rossa, infatti, sta liberando i campi di sterminio, rivelando al mondo intero l’orrore della Soluzione finale.

Gerron, comunque, non vedrà mai la sua opera finita: sia lui che tutti gli attori, ingannati dai nazisti, verranno infatti mandati ad Auschwitz poco prima della fine delle riprese, e uccisi in una camera a gas il 17 ottobre 1944.

Ludovica V.

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