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“ROMEO E GIULIETTA” A TEREZĺN

 

(Disegno di Bedrich Fritta)

Disegno di Bedrich Fritta

 

Un episodio realmente accaduto e parte dello spettacolo Terezín, Artisti tra le ceneri è il matrimonio tra Valtr Eisinger e Vera Sommerova. È la storia di due amanti, ennesime vittime di un inganno perpetrato dai gerarchi nazisti.

Se nella vita il matrimonio rappresenta un momento di felicità e di speranza nel futuro, nella grigia cornice del ghetto è stato un ultimo espediente per rimanere uniti nello stesso destino: il matrimonio avrebbe salvato Valtr e Vera dalla separazione in vista di una deportazione imminente.

Sulla musica del Requiem di Verdi, Valtr e la sua compagna Vera, entrambi impiegati presso l’Assistenza alla gioventù, hanno celebrato le loro nozze nel giugno del 1944.

Le parole di Vera ci lasciano una testimonianza diretta dell’evento: “Partivano continuamente convogli in quel periodo e il coro già preparato subì un duro colpo, dunque concordammo che nel giorno del nostro matrimonio Valtr avrebbe rinforzato la sezione dei tenori. Io ottenni un ambitissimo biglietto gratuito. Rafík Schächter [il direttore d’orchestra] fu fantastico. Quando il concerto finì con un lungo applauso, egli si felicitò con noi di fronte a tutto il pubblico e poi ci baciò e abbracciò. Quanto spesso ho ricordato il nostro Requiem nuziale, che forse fu il presagio degli imminenti tragici eventi” (AA.VV, We Are Children Just the Same, estratti da Vedem a cura di Křížková Rut, Kout Kurt Jiří, Ornest Zdeněk, Philadelphia-Gerusalemme, The Jewish Publication Society, 1995).

Nel settembre del ’44 Valtr Eisinger fu mandato ad Auschwitz e morì a Buchenwald  nella marcia della morte. Vera Sommerova venne deportata ad Auschwitz meno di un mese dopo. Nemmeno il vincolo del matrimonio è bastato a salvarli dalla separazione e dalla morte.

Evelina P. e Alessandra C.

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LE RAGAZZE DELLA “STANZA 28”

Fra i prigionieri del ghetto di Terezín ci furono all’incirca 15.000 bambini che soffrirono le misere condizioni igieniche, abitative e la fame cui erano costretti a vivere anche gli adulti. Oltre al distacco dalle famiglie, l’infanzia violata fu per loro uno dei dolori più grandi da dover affrontare.

Riproduzione dell'alloggio  delle ragazze della "stanza 28"

Riproduzione dell’alloggio delle ragazze della “stanza 28”

Lo Judenrät, il consiglio ebraico di Terezín, istituì delle “case” per bambini, offrendo loro l’opportunità di impiegare il tempo in attività educative clandestine con vere e proprie lezioni e iniziative culturali tenute da artisti come Friedl Dicker Brandeis e Gideon Klein.

Fra le bambine del ghetto, c’erano quelle della “stanza 28”: oltre 30 ragazze, dagli 8 ai 16 anni, che vivevano in una camera di appena 30 mq. Durante le lezioni le giovani si alternavano fuori dall’alloggio controllando che non arrivassero le SS, in quanto  l’educazione era a loro vietata e la violazione di tale regola sarebbe stata punita pesantemente.

Tra queste solo quindici sopravvissero, e alcune di loro hanno voluto ricordare questa dura esperienza lasciando la propria testimonianza in un’intervista intitolata 5 survivors from room 28 in Ghetto Terezín” (prodotta e diretta da Eliana Schejter e Addie Reiss), dove descrivono dettagliatamente il luogo che le ospitò in quegli anni difficili.

Il piccolo ripostiglio, con pavimento in legno e doppia porta, era composto da file di letti a castello a tre piani. Le ragazze dormivano su materassi di paglia, scomodi e poco igienici, pieni d’insetti e cimici che le infastidivano e non permettevano loro di dormire la notte.

I momenti che le ragazze vivevano con più serenità, erano quelli durante le varie attività artistiche, come le lezioni di disegno, musica e recitazione. Alcune ragazze della “stanza 28” furono scelte per partecipare alle prove del Brundibár, che iniziarono nel Luglio 1943, insieme ad altri ragazzi del ghetto.

Con il Brundibár la vita di molti bambini cambiò, fornendo ai piccoli uno spazio di gioia e distrazione dagli eventi drammatici quotidiani.

Mariaroberta C. e Roberta P.

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ALICE HERZ-SOMMER

Spietata sonata per orchestra

Alice-Herz-Sommer

Una stanzetta angusta e spoglia. Un pianoforte malmesso: un pedale non funziona e i tasti s’ incastrano con regolarità. Pochi spartiti sono stati salvati. L’oceano della memoria suggerisce con rigore le note mancanti. Un’ ora al giorno per esercitarsi, le altre per lavorare la mica[1]. Un mestiere pericoloso, soprattutto per una pianista. Alice lo sa, ma nel ghetto non c’è scelta. Se si comporterà bene e rispetterà le direttive avranno salva la vita lei e suo figlio. Deve preparare un concerto, per ordine delle SS, una settimana circa dopo il suo arrivo, con la deportazione dei musicisti  all’ ordine del giorno e a disposizione non molti strumenti, per lo più da riparare. Solo in occasione di “visite speciali” si profila la possibilità di veder apparire, come per magia, un violino o un clarinetto in buone condizioni. Il poter suonare è già una bella conquista, sebbene raggiunta solo per allietare e celebrare i nazisti. In un’ottica di privazione totale di libertà e mortificazione dei prigionieri ebrei, la musica era stata da loro inizialmente vietata. La dolce e talentuosa Alice questo lo sa, ma le incantevoli melodie cantate dalle sue mani  riescono ad aggirare i divieti e fanno innamorare. Hans Kráša, musicista deportato a Terezín e autore dell’operetta Brundibár, sentendola suonare per la prima volta, esclama “impressionante”. Doveva esserlo veramente se pensiamo che, nel 1944, le viene concesso di esercitarsi ben due ore al giorno. Ma non finisce qui: è lei ad occuparsi della classe di musica. Questo è il suo vero contributo nel ghetto: partecipare alle lezioni significa non lavorare in quelle ore e scordare per un po’ la fame e la paura. Niente di più vero se pensiamo che la sua attenzione più grande è rivolta agli angeli della morte, bambini costretti a lavori disumani.  Con la musica si può riuscire a farli sorridere di nuovo e far loro ricordare quell’umanità che ha un debole profumo di casa? Alice Herz-Sommer lo spera ogni giorno e si dedica a tutti, grandi e piccini con una passione che fa credere, che fa sperare. Gioia e dolore le urlano dentro quando capisce che la sua diligenza salveranno lei e il figlio Rafi. Le lezioni sono all’ordine del giorno e si organizzano concerti ogni sera. Beethoven è il suo magister per eccellenza:un tedesco sui generis che faceva del suo meglio per aiutare chi aveva bisogno. Così, con le sue note migliori, Alice ha voluto donarsi agli altri e con un cuore coraggioso aiutare a superare la paura.

                                                                                                    Francesca D.

1 La mica è un minerale che veniva utilizzato per l’impiego bellico.

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GLI ANGELI DELLA MORTE

Il lavoro dei più piccoli

Il gruppo bronzeo dell’artista Marie Uchytilová a Lidice.

In memoria dei bambini, Marie Uchytilová.

 

“I bambini rubano il pane e chiedono soltanto
di dormire, di tacere e ancora di dormire…”

Anonimo, 1944

Theresienstadt non aveva camere a gas perché non era un campo di sterminio, ma le persone morivano ugualmente: di fame, di malattia, di dissenteria cronica, di tifo o altre epidemie. I cadaveri non potevano essere sepolti in quanto, essendo il terreno acquitrinoso, l’acqua sarebbe filtrata all’interno delle fosse. I morti venivano cremati e le ceneri setacciate per recuperare eventuali protesi dentarie o altri accessori in oro e, successivamente, poste in scatole di cartone sulle quali era scritto il nome del defunto.

Gli Angeli della Morte erano gli “smaltitori” dei resti dei morti, che passavano queste scatole all’angelo successivo, in piedi e in fila, ricoperti di abiti stracciati e troppo piccoli, scalzi, senza guanti, troppo magri e affamati: erano tutti bambini pagati con qualche sardina o salsiccia per questa raccapricciante attività. Dalle scatole, piene di  buchi, fuoriuscivano ceneri e pezzetti di ossa. Alcuni bambini riconoscevano sulle scatole i nomi dei loro parenti. Le scatole venivano caricate dai tedeschi sui camion e portate al fiume Ohre e qui disperse. Migliaia di scatole piene di ceneri da smaltire, perché Theresienstadt era un inferno e vi morivano troppe persone al giorno.

Quando erano più fortunati, i bambini svolgevano attività di Bordennanz, ovvero venivano incaricati di portare messaggi tra le caserme o di informare i prigionieri, tramite messaggi scritti, che erano stati inclusi nel treno successivo per Auschwitz, divenendo così, Corrieri di Morte. Altre volte venivano costituiti gruppi di bambini incaricati di raccogliere “castagne d’India”, le castagne selvatiche dell’ippocastano, utilizzate come ingrediente nella fabbricazione del pane, quando non veniva utilizzata la segatura come sostanza saziante. Questo lavoro avveniva sotto la stretta sorveglianza delle SS perché si svolgeva al di fuori del campo.

 Rosaria R.

 

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QUITTUNG UBER

La moneta di Terezín

“Non bisogna parlare ma lavorare. Nessuna speculazione.
Siamo come una nave che aspetta di entrare in rada
perché una barriera di mine le impedisce di farlo”
(discorso di Eppstein).

 

moneta_terezin1

Per rendere ancora più credibile la messinscena architettata per scopi propagandistici, il ghetto di Terezín era provvisto anche di propria carta moneta per uso interno. Di questa moneta, chiamata Corona (kronen), la stamperia dello Stato di Praga emise sette tagli da 1, 2, 5, 10, 20, 50 e 100. La banconota presentava da un lato il taglio e dall’altro una raffigurazione di Mosè con in mano le tavole dei Dieci Comandamenti.

Il disegno fu commissionato a Peter Kien, (poeta, scrittore e grafico internato nel ghetto nel 1941, inviato ad Aushwitz nel 1944) sotto la sovrintendenza di Reinhard  Heydrich e firmato dal Capo dello Junderät, Jakob Edelstein. Nel primo disegno che gli fu sottoposto, il boia ritenne che i tratti somatici di Mosè fossero “troppo ariani” pretendendo così di farli accentuare con un tratto più “semita” e ordinò che, per ironia della sorte, la mano sinistra di Mosè indicasse il comandamento “non uccidere”.

L’utilizzo e circolazione delle “Corone di Mosè” doveva testimoniare che nella città fortezza il commercio fosse fiorente. Lo scopo delle banconote era quello di defraudare i deportati della carta moneta a valore legale posseduta; avendo soldi finti veniva impedito loro, se solo ne avessero avuto possibilità, di comprare un biglietto ferroviario o qualsiasi altra cosa utile al di fuori delle mura della fortezza. Ad onor del vero si trattava di ricevute per beni requisiti, in quanto non avevano alcun potere di conversione in merci: “ricevuta per” è appunto la scritta che compare su di esse.

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Rosaria R.

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IL “GHETTO MODELLO” DI TEREZÍN

La finzione della “normalità”

Foto d’epoca delle riprese del film “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”

Foto d’epoca delle riprese del film “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”

La vita a Terezín era amministrata dallo Judenrät, al quale i nazisti affidarono la gestione del ghetto. Nel 1942 venne istituito il Freizeitgestaltung (Comitato per il Tempo Libero) per regolare l’intensa attività culturale generata dalla convivenza, seppur coatta, di tanti artisti.
Terezín fu un interessantissimo laboratorio culturale che nel Novecento non ebbe eguali: in nessun’altra città europea, tra il 1941 e 1944, vi fu un fermento creativo di tale portata.
La relativa libertà artistica e la parvenza di vita normale, faceva di Terezín quello che i tedeschi avrebbero presentato come “ghetto modello”, adempiendo così alla funzione propagandistica di mantenere l’aspetto dell’autonomia ebraica e la “normalità” della vita del ghetto.

La massima espressione della propaganda nazista fu sintetizzata nella realizzazione, all’interno del campo, del film Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Hitler dona una città agli Ebrei), girato subito dopo la visita della Croce Rossa, per celebrare una delle più grandi farse della storia. Per l’occasione, fu mistificata la realtà sotto vari aspetti: oltre a incrementare gli spettacoli teatrali e musicali, venne organizzata una partita di calcio con i prigionieri e fu costruito un finto ospedale, distrutto subito dopo le riprese, nonostante le epidemie imperversanti e le tragiche condizioni dei malati.

Nessuno smascherò l’inganno, la follia non incontrò alcun ostacolo e le deportazioni proseguirono a ritmo sempre più incalzante.

Foto d’epoca della partita di calcio organizzata per il film di propaganda

Foto d’epoca. Partita di calcio organizzata per il film di propaganda

Foto d’epoca. Finto ospedale del film di propaganda

Foto d’epoca. Finto ospedale del film di propaganda

Federica C. e Marzia D.S.

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HITLER DONA UNA CITTÀ AGLI EBREI

Il film nazista diretto da un ebreo

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Scena tratta dal film “Hitler dona una città agli ebrei”

 

“Le riprese erano un grosso assurdo teatro, in cui ognuno era guidato da un unico sentimento: la paura. Non c’era altro linguaggio a Terezín se non la paura. E questa paura dominava anche Gerron”. (Cit. Ivan Fric, cameraman del film)

 

La domanda nasce spontanea: perché mai un famoso regista ebreo avrebbe dovuto dirigere un film di propaganda nazista? Per non finire su un convoglio diretto ad Auschwitz.

Questo è il ricatto che convince Kurt Gerron a piegarsi ai desideri dei suoi carcerieri e ad accettare l’incarico di regista della pellicola Der Führer schenkt den Juden eine Stadt, meglio conosciuta come Hitler dona una città agli ebrei (qui un estratto del film). In cambio dell’implicita promessa di aver salva la vita, assieme a quella di tutti gli attori, nell’agosto del 1944 Gerron inizia le riprese di un film che altro non è che un’opera di contraffazione della realtà. Si tratta di una pellicola che vuole riproporre, attraverso la macchina da presa, la pantomima messa in scena, due mesi prima, davanti all’ispettore della Croce Rossa Maurice Rossel. Mentendo a se stesso e a tutti gli ebrei, infatti, Gerron accetta il compito di ripresentare Terezín come una sorta di mondo ideale: un ghetto modello in cui vige un’atmosfera ludica e allegra, in cui le attività culturali sono sostenute e in cui ogni recluso diventa attore. Per l’occasione tutto il ghetto viene trasformato in un gigantesco set cinematografico, dove gli artisti e i tecnici vivono in un clima quotidiano di terrore, schiacciati dal perfezionismo quasi maniacale del regista e dal controllo incessante e pervasivo dei nazisti.

Il film viene concluso nel dicembre 1944 e montato a Praga all’inizio del 1945. Tuttavia, la sua funzione propagandistica viene resa vana dall’evolversi degli eventi di guerra: l’Armata Rossa, infatti, sta liberando i campi di sterminio, rivelando al mondo intero l’orrore della Soluzione finale.

Gerron, comunque, non vedrà mai la sua opera finita: sia lui che tutti gli attori, ingannati dai nazisti, verranno infatti mandati ad Auschwitz poco prima della fine delle riprese, e uccisi in una camera a gas il 17 ottobre 1944.

Ludovica V.

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