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ALICE HERZ-SOMMER

Spietata sonata per orchestra

Alice-Herz-Sommer

Una stanzetta angusta e spoglia. Un pianoforte malmesso: un pedale non funziona e i tasti s’ incastrano con regolarità. Pochi spartiti sono stati salvati. L’oceano della memoria suggerisce con rigore le note mancanti. Un’ ora al giorno per esercitarsi, le altre per lavorare la mica[1]. Un mestiere pericoloso, soprattutto per una pianista. Alice lo sa, ma nel ghetto non c’è scelta. Se si comporterà bene e rispetterà le direttive avranno salva la vita lei e suo figlio. Deve preparare un concerto, per ordine delle SS, una settimana circa dopo il suo arrivo, con la deportazione dei musicisti  all’ ordine del giorno e a disposizione non molti strumenti, per lo più da riparare. Solo in occasione di “visite speciali” si profila la possibilità di veder apparire, come per magia, un violino o un clarinetto in buone condizioni. Il poter suonare è già una bella conquista, sebbene raggiunta solo per allietare e celebrare i nazisti. In un’ottica di privazione totale di libertà e mortificazione dei prigionieri ebrei, la musica era stata da loro inizialmente vietata. La dolce e talentuosa Alice questo lo sa, ma le incantevoli melodie cantate dalle sue mani  riescono ad aggirare i divieti e fanno innamorare. Hans Kráša, musicista deportato a Terezín e autore dell’operetta Brundibár, sentendola suonare per la prima volta, esclama “impressionante”. Doveva esserlo veramente se pensiamo che, nel 1944, le viene concesso di esercitarsi ben due ore al giorno. Ma non finisce qui: è lei ad occuparsi della classe di musica. Questo è il suo vero contributo nel ghetto: partecipare alle lezioni significa non lavorare in quelle ore e scordare per un po’ la fame e la paura. Niente di più vero se pensiamo che la sua attenzione più grande è rivolta agli angeli della morte, bambini costretti a lavori disumani.  Con la musica si può riuscire a farli sorridere di nuovo e far loro ricordare quell’umanità che ha un debole profumo di casa? Alice Herz-Sommer lo spera ogni giorno e si dedica a tutti, grandi e piccini con una passione che fa credere, che fa sperare. Gioia e dolore le urlano dentro quando capisce che la sua diligenza salveranno lei e il figlio Rafi. Le lezioni sono all’ordine del giorno e si organizzano concerti ogni sera. Beethoven è il suo magister per eccellenza:un tedesco sui generis che faceva del suo meglio per aiutare chi aveva bisogno. Così, con le sue note migliori, Alice ha voluto donarsi agli altri e con un cuore coraggioso aiutare a superare la paura.

                                                                                                    Francesca D.

1 La mica è un minerale che veniva utilizzato per l’impiego bellico.

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LA VENERE DEL REICH

Tra finzione e realtà

Oggi vi presentiamo il racconto di Piergiorgio Pulixi che abbiamo avuto il piacere di conoscere a “Più libri più liberi”, fiera nazionale della piccola  e media editoria, e che ha voluto condividere con noi “Terezìn”, una trama noir che intreccia finzione e realtà.
È un racconto intenso, una vicenda che mostra tutta la crudeltà del “ghetto modello” e narra di una vicenda che, in verità, ne rappresenta tante altre.
Ringraziamo l’autore per averci autorizzato a condividere il suo racconto sul nostro blog.

Buona lettura!

Non avrebbe potuto scegliere un posto migliore dove morire. Fu la prima cosa che pensai osservando la città dai finestrini del taxi. L’autista si accorse del mio stupore quasi infantile di fronte a quello spiraglio di paradiso. In un inglese stentato iniziò a parlarmi di quel luogo. Non riuscivo ad ascoltarlo perso com’ero nel placido azzurro dell’acqua, rapito dai filari di palme che costeggiavano il lungolago ed estasiato da quel liberty imperante che aveva il potere di farti sentire come sospeso in un’altra epoca. Il pensiero che avesse scelto questo posto dove nascondersi per tutti quegli anni mi fece sorridere. L’avevo cercata ovunque. Brasile, Paraguay, Messico, tutto il Sudamerica. In Uruguay un suo collega, mi aveva dato una soffiata addirittura sul Giappone. C’ero andato. Salvo poi maledirlo, perché si era soltanto preso gioco di me. Ma era troppo tardi. Il cancro se l’era portato via. Non mi ero arreso. Avevo continuato a cercarla. Turchia. Indonesia. Persino Australia. Molti mi dicevano che stavo sprecando la mia vita. Mi consigliavano di metterci una pietra sopra. Forse avrei dovuto farlo. Perché col tempo, a parte lei, non mi era rimasto niente. Lei… La mia ossessione. Era una corsa contro il tempo, lo sapevo. Anch’io come tutti loro stavo invecchiando. Ormai era questione di mesi, più che di anni. E più il suo branco di lupi spariva sotto i meschini assalti della vecchiaia, più le mie possibilità di trovarla si affievolivano. Poteva essere anche morta, certo. Forse stavo inseguendo soltanto un fantasma. Possibile. Più volte mi ero quasi convinto di questo. Ma non ci avevo mai creduto. Era come se qualcosa ci legasse. Non avevo prove, ma sapevo che era viva. Così come ero certo che lei sapesse che la stavo cercando. E alla fine l’avevo trovata.

Qui il resto del racconto

Mariaroberta C.

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IL “GHETTO MODELLO” DI TEREZÍN

La finzione della “normalità”

Foto d’epoca delle riprese del film “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”

Foto d’epoca delle riprese del film “Der Führer schenkt den Juden eine Stadt”

La vita a Terezín era amministrata dallo Judenrät, al quale i nazisti affidarono la gestione del ghetto. Nel 1942 venne istituito il Freizeitgestaltung (Comitato per il Tempo Libero) per regolare l’intensa attività culturale generata dalla convivenza, seppur coatta, di tanti artisti.
Terezín fu un interessantissimo laboratorio culturale che nel Novecento non ebbe eguali: in nessun’altra città europea, tra il 1941 e 1944, vi fu un fermento creativo di tale portata.
La relativa libertà artistica e la parvenza di vita normale, faceva di Terezín quello che i tedeschi avrebbero presentato come “ghetto modello”, adempiendo così alla funzione propagandistica di mantenere l’aspetto dell’autonomia ebraica e la “normalità” della vita del ghetto.

La massima espressione della propaganda nazista fu sintetizzata nella realizzazione, all’interno del campo, del film Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Hitler dona una città agli Ebrei), girato subito dopo la visita della Croce Rossa, per celebrare una delle più grandi farse della storia. Per l’occasione, fu mistificata la realtà sotto vari aspetti: oltre a incrementare gli spettacoli teatrali e musicali, venne organizzata una partita di calcio con i prigionieri e fu costruito un finto ospedale, distrutto subito dopo le riprese, nonostante le epidemie imperversanti e le tragiche condizioni dei malati.

Nessuno smascherò l’inganno, la follia non incontrò alcun ostacolo e le deportazioni proseguirono a ritmo sempre più incalzante.

Foto d’epoca della partita di calcio organizzata per il film di propaganda

Foto d’epoca. Partita di calcio organizzata per il film di propaganda

Foto d’epoca. Finto ospedale del film di propaganda

Foto d’epoca. Finto ospedale del film di propaganda

Federica C. e Marzia D.S.

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Dentro Terezín

La testimonianza di una prigioniera

Un viaggio all’interno del campo di concentramento di Terezín, a partire dalla cittadina fin dentro i dormitori e l’infermeria. La voce di Carla Josephus Jitta (1931), reduce del campo di Terezín, ci accompagna tra binari, mura fortificate e i resti del lager pensato per ospitare gli ebrei eccellenti.

Qui la traduzione del racconto di Carla Josephus Jitta

Siete arrivati nel ghetto di Theresienstadt, mi chiamo Carla Josephus Jitta. È difficile immaginare quello che ho vissuto quando ero una bambina. La vita continua. Adesso sembra un normale villaggio ceco ma quando arrivai con mio fratello e mia nonna questo posto era una ghetto. Un posto orribile dove la vita degli esseri umani non aveva alcuna importanza.
Su questi binari sono entrata e ho lasciato il ghetto, mi sembra strano che possano essere proprio gli stessi. Ci fermammo al cancello dell’edificio e improvvisamente la porta del nostro treno merci si aprì. Mi svegliai di soprassalto, ero crollata dopo essere rimasta sveglia per 48 ore.
Era come una rappresentazione teatrale. C’erano lampioni, le tende erano alzate. Curioso. Trovavo divertente che prima della deportazione avessi vissuto in una città con una fortezza simile perciò queste mura mi divennero familiari. Una volta mi sedetti sulla cima delle mura e capii cosa c’era fuori dal campo. L’acqua scorreva tutto intorno e circondava la fortezza.
Fuori dalla città si può visitare la Piccola Fortezza, la prigione dove non sono mai stata. Lì vicino c’è anche il cimitero di tutti i detenuti morti. Ma la maggior parte dei 140.000 prigionieri è stata assassinata ad Auschwitz o in altri campi di sterminio. Grazie al mio certificato di battesimo ho potuto rimanere a Terezín e sopravvivere alla guerra, per questo oggi posso raccontare la mia storia.

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